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Il rapporto Mafie e Politica: quando è in gioco la democrazia

Abusivismo edilizio, beni confiscati, urbanistica, edilizia privata e pubblica, rifiuti, rete idrica, tributi locali e perfino servizi cimiteriali, sono in cima alla lista degli interessi dei clan mafiosi che con l’aiuto di amministratori locali e funzionari compiacenti e spesso collusi, puntano a condizionare la vita dei comuni, arrivando al loro scioglimento per mafia.

Sono 365 i decreti di scioglimento dal 1991 ad oggi: una media di uno al mese. Considerati gli scioglimenti plurimi, gli Enti effettivamente sciolti per mafia almeno una volta sono stati 275 in questi trent’anni, tra cui 6 aziende sanitarie e ospedaliere. Numeri impressionanti, emersi dalla presentazione appena conclusa del Dossier 2021 “Le mani sulle città” di Avviso Pubblico sui comuni sciolti nel 2021, presentato insieme a Giancarlo Castelli, Enzo Ciconte e Vittorio Mete nell’ambito delle giornate preparative di #Contromafiecorruzione. Il report contiene inoltre un focus sui 30 anni di applicazione della legge sullo scioglimento degli enti locali. Da nord a sud sono meno della metà le regioni risparmiate dai decreti di scioglimento. Ad essere coinvolte sono state, invece, Calabria, Campania, Sicilia, Puglia, Piemonte, Liguria, Lazio, Basilicata, Lombardia, Emilia-Romagna e Valle d’Aosta. Mentre dal 1991 ad oggi, 71 enti sono stati colpiti dal provvedimento più di una volta: 52 di questi sono stati sciolti due volte e 18 Enti locali addirittura 3 volte. Una recidiva preoccupante, che affianco alle inchieste giudiziarie, dimostra che non può esistere una mafia senza l’appoggio della politica. «Un rapporto storico quello tra mafia e politica, che risale in pratica già all’800», spiega Enzo Ciconte, storico delle organizzazioni criminali, che ha concentrato il suo intervento sugli ultimi trent’anni, dalle stragi mafiose ad oggi, e come questo elemento abbia attraversato la storia dell’Italia repubblicana.

«I rapporti con la politica sono cambiati nel tempo – dice ancora Ciconte –, arrivando a vedere i gruppi criminali in posizione predominante rispetto alla politica. Si comprende perché è necessario arrivare a recidere questo legame». Nel corso di questi trent’anni, la legge ha manifestato una serie di limiti e di criticità che Avviso Pubblico ha già evidenziato anche nel corso di una audizione presso la Commissione Affari Costituzionali nel 2019. «Lo scioglimento dei comuni per mafia è un pezzettino della politica pubblica contro le mafie – ha spiegato Vittorio Mete, docente di sociologia all’Università di Torino – che va letto come un tassello della strategia più ampia che lo stato ha messo insieme negli ultimi decenni per contrastare le infiltrazioni. Il primo elemento di criticità è senz’altro che questa legge ha una natura preventiva molto bassa, perché alla lunga gli scioglimenti godono di un deficit di popolarità e di consenso. Quello della legittimità percepita è un problema che dobbiamo porci, perché lo scioglimento del comune non rimedia ad un meccanismo di raccolta del consenso che non è sano e che non si ripara in pochi mesi. È una legge quindi che va cambiata e le proposte di Avviso Pubblico sono da sposare e da promuovere».

Una legge da rivedere, per Enzo Ciconte, che da parlamentare ha contribuito a far approvare nel 1991. «Lo si è visto già nei primissimi decreti di scioglimento – spiega lo storico e scrittore –. Inoltre c’è il grosso problema dei commissari spesso inadeguati ad affrontare la situazione e quindi questo crea insofferenza nella cittadinanza. E poi non funziona più perché ci sono troppi scioglimenti arbitrari legati spesso al momento politico». Considerazione che investe la responsabilità giudiziaria e politica. «Non è giusto – conclude Ciconte – indipendentemente da chi governa, che una responsabilità in capo al sindaco, ricada automaticamente su tutti i consiglieri che vengono sciolti insieme a quel sindaco. Lo stigma dello scioglimento per mafia, pesa anche anche sul quel consigliere di minoranza e addirittura in opposizione al sindaco responsabile. E questo mi sembra sbagliato». Sono molte le indagini che al Sud come al Nord hanno dimostrato che a chiedere i voti ai mafiosi sono spesso gli stessi politici. Un tassello fondamentale per capire come i provvedimenti di scioglimento si muovano di pari passo anche con le inchieste della magistratura, che quando indaga i rapporti tra mafia e politica si trova spesso in una posizione scomoda, quando non palesemente messa ai margini. «Spetta alla politica operare scelte di buon governo e a nessun altro. Ma detto questo, non possiamo non ricordare che ci sono problemi, tanti, che la nostra politica non sa risolvere, o non vuole affrontare o preferisce non affrontare e che invece delega alla magistratura – ammonisce Gian Carlo Castelli, già capo della Procura di Palermo – È successo per il terrorismo brigatista, per la corruzione, per l’evasione fiscale, per la sicurezza agro-alimentare, per la tutela dell’ambiente, ed è successo anche per la mafia.

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