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Siracusa e la Storia. Quando la mafia voleva eliminare il magistrato Dolcino Favi

Dolcino Favi è nato a Modica in provincia di Ragusa, ma siracusano d’adozione; magistrato molto attento ai mutamenti della società, di vecchio rango e di lunga carriera, con migliaia di procedimenti d’accusa contro mafiosi, delinquenti comuni, politici, funzionari pubblici, compreso magistrati e finanche un ministro della Repubblica con la delega alla Giustizia, e con tantissimi processi di mafia dove ha sostenuto la pubblica accusa. Profondo conoscitore del mondo criminale, indiscusso protagonista della lotta alla mafia, così come alla delinquenza organizzata; popolarissimo, conosciutissimo e famoso per il suo singolare “piglio”, come per la sua rettitudine professionale e la durezza di carattere, nel particolare rispetto del ruolo di pubblico ministero presso la Procura della Repubblica di Siracusa e conosciuto più comunemente come “’u iurici Favi”. Un magistrato con il Dna dell’antimafia nel sangue, molto preciso e attivo; cercò in tutti i modi di rendere più incisiva l’azione della magistratura contro il crimine organizzato, coinvolgendo sempre le forze di polizia in prima persona, come fosse una squadra investigativa nuova per ogni singolo caso, ad ogni indagine; di prima persona seguiva passo passo ogni mossa e in ogni singola azione, recandosi personalmente in Questura o nelle caserme dei carabinieri o della guardia di finanza.

All’inizio degli Anni Ottanta, la mafia siracusana decide d’intimorire il giudice istruttore Francesco Fabiano. Con un ordigno di grosso potenziale la sua autovettura fu quasi disintegrata mentre era parcheggiata sotto casa; pochi giorni dopo nel cortile del Tribunale di Siracusa, nella vecchia sede di Piazza Della Repubblica, un altro ordigno fu fatto esplodere mentre i magistrati erano riuniti per esprimere la loro solidarietà al collega Francesco Fabiano, che proprio in quei giorni stava istruendo dei processi su alcuni fatti criminosi e contro elementi di spicco della mafia siracusana.

Il giorno dopo l’attentato presso il cortile del Tribunale di Siracusa in piazza della Repubblica, gli uomini dei clan rinchiusi nel vecchio carcere giudiziario di via Vittorio Veneto, furono tutti trasferiti e divisi tra loro in diverse strutture carcerarie dell’Isola e oltre lo Stretto, al fine di evitare i contatti con gli uomini che si trovavano in libertà e che eseguivano gli ordini impartite da dietro le sbarre dai loro capi per tentare di allentare il terrore che in città come del resto della provincia aveva raggiunto i limiti di guardia, dopo che nel capoluogo in appena 35 giorni erano stati fatti esplodere ben 40 ordigni esplosivi con la finalità dell’estorsione.

Ma dopo un tempo relativamente breve, i carabinieri del reparto operativo del comando provinciale di Siracusa (fatto appurato e scoperto dall’allora brigadiere Bartolo Giliberto ora in pensione con il grado di luogotenente), informarono il sostituto procuratore della Repubblica, Dolcino Favi, rafforzandogli nel frattempo le misure di scorta e sicurezza, della preparazione di un commando armato per le dinamiche di un attentato nei suoi confronti presso la sua casa di campagna o durante una battuta di caccia, da parte della mafia siracusana con una squadra di killer che in quel tempo seminavano il terrore e che imperava ben organizzata e con un solo e unico incontrastato clan nel territorio siracusano; secondo i capi del clan, il magistrato era colpevole dell’accanimento d’indagine continua e senza tregua verso la lotta alla malavita organizzata siracusana e di essere riuscito, solo uno dei particolari ma tanti altri furono le indagini “scomode”, a convincere Francesco Di Mari, “’u gilateri”, a rivelargli i nomi dei suoi killer che lo avevano colpito gravemente mentre si trovava nel bar all’interno di una stazione di servizio sulla Statale ex 114 Siracusa Priolo, con una scarica di pallottole dove alcuni lo colpirono alla colonna vertebrale in modo grave da negargli l’uso delle gambe per tutta la vita. Per quel ferimento la Procura ipotizzò ii tentato omicidio. Processati furono riconosciuti colpevoli e condannati Agostino Urso e Salvatore Schiavone suo delfino.

Era il periodo di maggiore tensione in città per l’escalation criminale; in appena trenta giorni furono collezionati una quantità indefinita di reati e intimidazione, fino a condizionare la popolazione a non uscire di casa la sera (è storia). Furono tempi tristi per la comunità siracusana e di alcuni paesi della provincia, come Floridia, Solarino, Pachino, Avola, Cassibile, Priolo, Lentini e altri. L’allarme delle forze dell’ordine era al massimo livello, con turni massacranti. Lo scenario era davvero di guerra mafiosa stile Catania e Palermo. Specie nel capoluogo si viveva in una sorta di coprifuoco. Ma nell’elenco degli uomini, da punire da parte dei clan che nel frattempo si erano contrapposti nella cruenta guerra di mafia che provocò un numero impressionante di morti, non ci furono solo i magistrati; ma entrarono a forza due conosciutissimi legali penalisti siracusani, difensori di fiducia di buona parte degli uomini del vecchio clan che nel frattempo si erano diviso in tre tronconi, quindi “avversari” inconsapevoli, oltre ad essere due avvocati impegnati e di tutto rispetto del Foro siracusano in processi penale. Si volevano eliminare gli avvocati dell’altra squadra in un’insolita quanto crudele e inspiegabile logica di vendetta criminale. Una guerra senza quartieri, dove entrarono anche gli interessi della politica e degli appalti pubblici e dove fu assassinato finanche un consigliere comunale.Di fatto, quella guerra di mafia sembrò essere una partita di pallone: ad un morto ammazzato di un clan si rispondeva con un altro morto del clan avverso; ovviamente, i due legali non erano dei “giocatori”, ma dei professionisti, i difensori dei guai giudiziari che i contendenti si procuravano nel consumare i reati con la Giustizia; tanti i casi di omicidio che i due avvocati difesero allora contro tanti uomini dei clan nell’ambito di quella guerra di mafia.

La cronaca in generale non ha mai registrato tanti casi di omicidio verso avvocati difensori; la similitudine può avvicinarsi con l’omicidio dell’avvocato Serafino Famà, ucciso a Catania il 9 novembre del 1995 e considerato tra le vittime della mafia. Ma in quella storia c’erano motivi diretti verso gli autori e i mandanti del delitto, per un consiglio rivolto a non far testimoniare una donna che avrebbe potuto cambiare forse le sorti del processo; ma di certo l’omicidio non cambiò la storia, che anzi si accanì contro gli autori del delitto. Ma nel caso dei due penalisti siracusani i fatti erano assolutamente da considerare neutri.

Dolcino Favi, durante la sua lunga carriera di magistrato, è stato protagonista da pubblico ministero nella cosiddetta “Crisi di Sigonella”; un complesso caso diplomatico avvenuto nella base militare nell’ottobre 1985, che proprio per l’intervento della Procura di Siracusa rischiò di sfociare in uno scontro armato tra VAM (Vigilanza Aeronautica Militare) e Carabinieri da una parte e gli uomini della Delta Force (reparto speciale delle forze armate statunitensi) dall’altra, all’indomani di una rottura politica tra il presidente del Consiglio italiano Bettino Craxi e il presidente degli Stati Uniti. E ancora. Da sostituto procuratore generale a Caltanissetta, Dolcino Favi, insieme alla collega Giovanna Romeo, al Borsellino-ter, sentenza di secondo grado, in rappresentanza dell’Ufficio del pubblico ministero, dove il 7 marzo del 2002 viene emessa la sentenza di appello al Borsellino-ter. La Corte di Assise d’Appello di Caltanissetta, presieduta da Giacomo Bodero Maccabeo, annulla sei ergastoli per Benedetto “Nitto” Santapaola, Giuseppe “Piddu” Madonia, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi. Carcere a vita per il latitante Bernardo Provenzano e altri dieci imputati: Giuseppe Calò, Michelangelo La Barbera, Raffaele Ganci, Domenico Ganci, Francesco Madonia, Giuseppe Montalto, Filippo Graviano, Cristoforo Cannella, Salvatore Biondo e Salvatore Biondo. Condannati a trent’anni Stefano Ganci, a vent’anni Giuseppe “Piddu” Madonia, Benedetto “Nitto” Santapaola, Giuseppe Farinella, Antonino Giuffrè, Salvatore Montalto e Matteo Motisi. Confermati sedici anni di reclusione per Mariano Agate, Salvatore Buscemi, Antonino Ganci, Benedetto Spera e Giuseppe Lucchese. Pene tra i diciotto e i sedici anni ai collaboratori di giustizia Giovanni Brusca, Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante. Una netta riduzione delle pene richieste dai sostituti procuratori generali, Giovanna Romeo e Dolcino Favi, che avevano sollecitato ben ventidue ergastoli. In qualità di sostituto procuratore generale di Caltanissetta, Dolcino Favi smontò il “teorema” di Vincenzo Scarantino, il falso pentito che dapprima si autoaccusò della strage di via D’Amelio, quella che trucidò Paolo Borsellino e la sua scorta, la cui testimonianza falsa, per anni vanamente ritrattata, ha fatto condannare innocenti e perdere vent’anni di inutili processi.

Concetto Alota

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