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Augusta, seminario formativo sui giornalisti minacciati, ma anche attività dentro le regole della legge uguale per tutti

Augusta. Nei locali del quarto istituto comprensivo si è tenuto sabato 10 marzo un seminario formativo dal titolo “Giornalisti minacciati in Sicilia, mai soli”. Organizzato dall’Unione nazionale cronisti, in collaborazione con Fnsi e l’associazione siciliana della stampa. Relatore è stato Francesco Nania, fiduciario Unci Siracusa, moderatore Leone Zingales, vice presidente nazionale dell’Unci; in apertura dei lavori i saluti da parte del dirigente scolastico del “Costa”, Michele Accolla, anche lui giornalista; presenti il presidente regionale Unci Sicilia, Andrea Tuttoilmondo, Santo Gallo, consigliere dell’Ordine regionale dei giornalisti che ha portato il messaggio del presidente dell’Ordine, Giulio Francese, assente per sopravvenuti impegni. Ha partecipato all’incontro Alberto Cicero segretario Assostampa Sicilia e Alessandro Galimberti, presidente nazionale dell’Unci e presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia.

La relazione articolata di Francesco Nania: L’osservatorio sui giornalisti minacciati in provincia di Siracusa nasce nel settembre 2016, a margine del seminario organizzato dall’Unci e tenuto al Siracusa International Institute for Criminal Justice and Human Rights (ex Isisc). E’ proprio in quel luogo in cui ancora oggi si discute di diritti dell’uomo che è scaturita l’esigenza dei cronisti siracusani di promuovere uno strumento di osservazione su tutti i fenomeni che coinvolgono la categoria. Diverse le segnalazioni di colleghi costretti a operare in un clima difficile che alcuni hanno definito di intimidazione.

In 16 mesi di attività non è certo un caso che l’Italia si collochi oltre il settantesimo posto nelle classifiche della libertà di stampa. In un Paese dov’è ancora previsto il carcere per i giornalisti e le querele temerarie, spesso utilizzate come minaccia preventiva,

 Nel 2017 Ossigeno ha documentato minacce a 337 giornalisti. Inoltre ha reso note minacce ad altri 86 giornalisti per episodi degli anni precedenti conosciuti dall’Osservatorio solo adesso. Per rimanere nell’ambito della provincia di Siracusa, sono, purtroppo,. Numerosi i casi di giornalisti minacciati.

A cominciare da Paolo Borrometi, l’11 settembre insultato da due persone sul profilo Facebook della testata online La Spia, a commento dell’articolo in cui rendicontava sulle elezioni ad Avola e sulle mire delle famiglie mafiose di condizionare il voto della città.

Ancora Borrometi il 19 novembre ha ricevuto un messaggio minaccioso nella posta privata di Fb dal fratello di un uomo vicino al clan Bottaro-Attanasio

 Subiscono gli strascichi giudiziari di episodi avvenuti 6 anni fa Franco Oddo e Carmelo Maiorca: il primo direttore del periodico La Civetta di Minerva e, l’altro direttore de L’Isola dei cani sono sotto processo a Messina e la prima udienza è stata fissata ad aprile. Caduta l’imputazione per associazione a delinquere, i due colleghi devono rispondere di diffamazione a mezzo stampa nei confronti di magistrati.

Sempre Franco Oddo e la collaboratrice del La Civetta di Minerva, Marina Di Michele il 4 novembre 2016 ricevono la richiesta iniziale di 5milioni, poi ridotta a 500mila euro da un magistrato che li ha diffidati per articoli pubblicati del 2011-2013 sulla Procura di Siracusa.

 Giuseppe Guastella direttore del periodico Il Diario1984 e Luca Signorelli, collaboratore del quotidiano online Siracusanews nel corso di una conferenza stampa il 9 maggio vengono presi di mira da una consigliera comunale che ha dichiarato di voler querelare per diffamazione.

Poi c’è il caso di Massimo Ciccarello, cronista del sito online La Nota 7 che il 6 dicembre 2016, viene attaccato dal sindaco di Augusta per un articolo sulle parcelle a professionisti, annunciando querela nei suoi confronti (su questo e altri casi sarà lo stesso Ciccarello a renderci edotti).

Questi sono i casi più eclatanti, emersi nel corso di eventi pubblici o sui social network o per ché denunciati dai colleghi. Ma abbiamo motivo di ritenere che la platea dei colleghi vittime di minacce sia molto più diffuso.

Da poco meno di un decennio a questa parte, con l’esplosione dei cosiddetti “Veleni in Procura”, la tensione è palpabile soprattutto per i cronisti che hanno raccontato e continuano a riportare la cronaca di quanto accade negli ambienti giudiziari. E quando sembrava che quel caso fosse ormai alle spalle, ecco esplodere un altro caso, quello che convenzionalmente chiamiamo Sistema Siracusa nel quale sono coinvolti ancora una volta magistrati in servizio alla Procura di Siracusa, avvocati, consulenti tecnici e, purtroppo, anche un collega (che speriamo possa dimostrare la sua estraneità ai fatti oggetto della contestazione).

Quello che abbiamo potuto registrare in poco più di 2 anni di attività dell’Osservatorio è l’aumento dell’aggressività nei confronti dei giornalisti. Siracusa entra circolo delle querele temerarie contro i giornalisti. Negli ultimi tempi, il rischio di denuncia per calunnia o diffamazione si è fatta reale, passando dalla minaccia alla carta bollata con citazioni o, addirittura, ingiunzione di risarcimento con somme milionarie.

Anche a Siracusa, da qualche anno, quello del giornalista è un lavoro che infastidisce, che disturba, e quindi spesso da attaccare con gli strumenti della querela, quando non s’interviene con la pressione sull’editore. Difendersi in giudizio ha dei costi non indifferenti e con la crisi dell’informazione in corso diventa davvero difficile continuare. Una causa contro un cronista può offrire il fianco alle idee poco audaci di quei direttori e di editori pronti a scaricare il cronista “piantagrane”. Oggi lo scontro è più sanguinoso, la libertà di stampa è diventata una macchina dell’odio, misurato col parametro dell’effetto bavaglio che le querele temerarie hanno sui giornalisti. Effetto spesso paralizzante che induce i vertici della testata, e anche il giornalista a omettere a volte fatti di cronaca importanti.

È diventata una vera emergenza la tutela personale e legale dei giornalisti, anche chiamando  a raccolta la pubblica opinione per costruire uno “scudo” a protezione dei giornalisti, meglio dire del giornalismo e dei giornalisti diventati più deboli. Le querele e le azioni civili temerarie determinano una condizione d’isolamento nei confronti dei giornalisti e degli editori che troveranno rifugio nell’autocensura, perdendo così la loro autonomia.

Sono decine al tribunale di Siracusa i procedimenti penali che pendono a carico di giornalisti, accusati di diffamazione a mezzo stampa mentre nel quadriennio 2010-13 i procedimenti sono aumentati dell’8% all’anno.

Diventa indispensabile, direi emergenziale, illuminare le periferie, aumentare la tutela legale, anche chiamando a raccolta gli avvocati impegnati sul fronte della tutela della libertà di stampa che vogliano gratuitamente costruire uno “scudo” a protezione dei giornalisti. Questo è necessario: perché le minacce e le querele sono in aumento, perché vengono utilizzati sempre nuovi metodi e nuovi media per minacciare.

Abbiamo bisogno di guardarci dentro, perché abbiamo perso l’anima della professione. La perdita della nostra autorevolezza ha costruito i muri d’ignoranza (notizie ignorate, dimenticate, distorte, false, manipolate) e solo con l’autorevolezza possiamo abbattere quegli stessi muri.

Oggi uno strumento giuridico di tutela come la querela per diffamazione è diventato un abuso, un deterrente contro il giornalismo. È successo piano piano, quando il giornalismo e i giornalisti sono diventati più deboli per via dei contratti precari, dei compensi bassi e della deresponsabilizzazione di molti editori. È successo quando la criminalità ha cominciato a servirsi dei colletti bianchi e viceversa. È successo quando in molti si sono accorti che il modo più efficace per sfiancare un giornalista, per fermare le sue inchieste, per delegittimarlo non era più quello di minacciarlo armi in pugno ma quello di utilizzare la legge come arma. Se, infatti, a fronte della pubblicazione di un’inchiesta o un articolo un reporter si vede piovere addosso una o più querele o richieste di risarcimento danni e magari quel giornalista è precario o non è assistito e tutelato dal suo editore, le conseguenze possono diventare molto gravi.

È ovvio che il giornalista possa sbagliare e il suo lavoro debba essere criticato, ma nella valutazione di eventuali sanzioni da applicare rispetto ai suoi comportamenti è fondamentale capire se l’errore sia di natura intenzionale, se si tratti di un episodio di superficialità o se sia meramente colposo (cioè indotto da una fonte che sembrava attendibile) o determinato da una parziale o non corretta verifica della notizia. Nel primo caso, a mio parere, non si tratta di giornalismo ma di ben altro da cui guardarsi e isolare: parlo di utilizzare intenzionalmente il lavoro giornalistico per colpire un soggetto con notizie che si sa essere false e diffamanti. Il secondo e terzo caso sono invece le ipotesi che si verificano più di frequente. Per il momento – e anche se passasse la nuova legge sulla diffamazione – questa distinzione, che potrebbe attenere alle varie ipotesi di dolo e colpa, per il reato di diffamazione, non viene fatta. Rientra tutto nel dolo generico.

Una segnalazione mai pervenuta all’Osservatorio è la storia del giornalista Gianni D’Anna, che ha raccontato per filo e per segno nei particolari la sua vicenda giudiziaria durata 10 anni, spiegando che è stato condannato due volte, in primo e in secondo grado, per diffamazione nei confronti del sostituto procuratore della Procura di di Siracusa, Maurizio Musco. Lo scenario è l’inchiesta “Mare Rosso”. La schermaglia giudiziaria prende spunto dal fatto che D’Anna in un articolo, come ha spiegato lui stesso a lungo, tra le tante altre cose scrive, che “l’inchiesta Mare Rosso era stata archiviata”; ma il pm Maurizio Musco, titolare del fascicolo d’indagine, contestò che invece erano stati semplicemente “derubricati alcuni dei reati nei confronti degli indagati”, a seguito di una condizione chiarita in sede istruttoria, ricordando anche che non è il pm ad archiviare una inchiesta, ma il giudice terzo, su richiesta, semmai, del pubblico ministero; da qui la querelle durata un decennio con le gravissime conseguenze.

In chiusura dei lavori, molto interessante le tesi in materia di Alessandro Galimberti, presidente nazionale dell’Unci che si è soffermato sugli aspetti giuridici del tema nelle diverse sfaccettature, e come in Sicilia, ma anche altrove, succedono e si susseguono tante situazione oggettive che rappresentano le diverse forme di attacco alla professione dei giornalisti, paragonando come un laboratorio quello che è successo alla procura di Siracusa con i veleni sfociati all’interno del palazzo di giustizia. Per Galimberti, ci sono state tante anomalie, ma quando succedono cose del genere, s’insinua quasi un percorso vizioso tra le professioni, istituzioni, poteri e magistratura. Bisogna esprimere più vicinanza della categoria, ai colleghi colpiti e bisogna cambiare strategia e prestare attenzione anche ai casi più periferici in Sicilia. Per Galimberti poi, ci sono tanti Borrometi, non basta più parlare solo di Saviano perché prima ci sono centinaia di colleghi che sono state abbandonate al loro destino, non è una provocazione ma un suggerimento che porto a me stesso, ha detto abbastanza irritato. Bisogna agire come comunità di giornalisti. Il giornalismo non deve essere perseguibile, certo, ma i giornalisti quando non fanno fede ai principi fondamentali che regolano la professione e la usano a loro piacimento, vanno perseguiti, affinché non sia penalizzata l’intera categoria. La regola non è quella di scandalizzarsi o la preoccupazione strumentale, spiega Galimberti: “sbagliato dire niente carcere per i giornalisti, ma niente carcere per il giornalismo”. Questa è la logica, altrimenti passa il principio della regola che vuole fuori dalle norme di legge l’attività giornalistica stessa. La professione deve svolgersi all’interno delle norme di legge che regolano la materia, e non gridando all’immunità in virtù di una garanzia che appare difformi da quelle generale e istituzionale, cioè deve essere per tutti uguali.

C.A.

 

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